top of page

"Vera" Ciceri e Gaetano Invernizzi

I contenuti di questa pagina sono tratti dal libro di Franco Alasia Gaetano Invernizzi, dirigente operaio.

​

Nel maggio del 1937 Gaetano Invernizzi, scrivendo dal penitenziario di Castelfranco Emilia alla sua compagna Francesca Ciceri, rinchiusa nel carcere femminile di Perugia, così descrive il loro primo incontro nell'estate del 1919: "Ninuccia amatissima, quanto io ringrazio quel giorno che mio padre mi mando a lavorare a casa tua permettendomi così di fare la tua conoscenza, non puoi immaginare. Rivedo ancora quei giorni come se fosse oggi: ricordo le parole che ci scambiamo, la brocca dalla quale bevevamo insieme, la biancheria che stavi lavando e che continuavi a voltare e rivoltare per starmi vicina, il nostro primo appuntamento, i primi baci…".

Il biennio rosso a Lecco

Nel 1919 c'è stato un grande sciopero e proprio in questo periodo ho conosciuto Nino. - racconta Francesca - veniva ad aspettarmi la sera fuori dalla fabbrica e si faceva un po' di strada insieme. I miei fratelli però erano contrari perché ero troppo giovane e ci trovavano per la strada. Dopo i grandi scioperi del 19, nel 20 ci sono state le occupazioni delle fabbriche. Anche la mia fu occupata. Eravamo tutti dentro, uomini e donne, lavoravamo e mandavamo avanti la produzione. E noi volevamo fermarci anche alla notte e fare la guardia, ma i compagni non volevano donne. L'occupazione è durata parecchie settimane. Verso la fine non eravamo più in grado di mandare avanti la produzione e occupavamo soltanto la fabbrica. A quei tempi c'era un tale fermento che se avessimo avuto un partito robusto come oggi (n.a. 1976), certamente si prendeva il potere. Quando i dirigenti della Confederazione del lavoro hanno ceduto, e il sindacalista Flavio Albizzati è venuto in fabbrica a dire che dovevamo uscire, ridarla in mano i padroni, c'è mancato poco che gli rompessero la testa. Nessuno voleva cedere, ci sentivamo traditi".

 

I padroni hanno allora cominciato ad armare i fascisti. Le Camere del Lavoro, i nostri circoli venivano attaccati dagli squadristi. Una volta fummo avvertiti che avevano intenzione di bruciare il Circolo Libero Pensiero del mio rione (n.b. il Circolo esiste ancora oggi nel quartiere di Francesca, ovvero Rancio). Dovevano arrivare gli squadristi da Milano. C'era una strada ripida e stretta per arrivare al Circolo, noi ci eravamo appostati sulla cima, armati di pietre e bastoni, pronti a lanciare tutto ciò che ci capitava tra le mani se ci attaccavano. Li abbiamo aspettati tutta la notte, ma non sono arrivati.

 

I fascisti locali non usavano colpire i concittadini, facevano arrivare una squadraccia da Milano, la "Randaccio". C'era un gruppo molto combattivo tra i nostri giovani che avevano fondato le squadre degli Arditi del Popolo e Nino era tra quelli. La Randaccio si accaniva soprattutto contro di loro. Tante volte quando Nino veniva da me era sanguinante.

"I nostri giovani usavano portare un fazzolettino rosso da taschino: io allora gli facevo in regalo un fazzolettino rosso, lui se lo metteva nel taschino con risvolto fuori, poi lo fissava dentro con degli spilli perché non potessero strapparglielo; ma quando erano attaccati, nella lotta glielo stracciavano e allora io gli dicevo che il fazzolettino non gliel'avrei più regalato perché non volevo essere la causa delle legnate che gli davano. "No, no -rispondeva- tu il fazzolettino me lo regali e io lo porto". Era fiero, non aveva paura, rispondeva colpo su colpo". 
 

Nel 1922, in occasione di una cerimonia, autorità, industriali, fascisti, lo stesso prefetto di Lecco, si erano raccolti in piazza Garibaldi, sull'angolo con via Roma, detto e el cantun dii bal (cioè l'angolo delle frottole, dove erano soliti, dopo la passeggiata, fermarsi a chiacchierare i notabili lecchesi). Invernizzi e alcuni compagni si erano portati sulla parte opposta della strada, decisi a ripagare i fascisti locali per gli attacchi della Randaccio. Infatti alcune sere prima i fascisti avevano forzato la porta d'ingresso della "Moderna", una cooperativa socialista che nel 1920 aveva sostenuto gli operai in sciopero, e avevano distrutto quanto avevano potuto, rubando pasta, olio, generi alimentari. Nella stretta strada i due gruppi erano vicini: "Nino e gli altri compagni - ricorda Vera - avevano vuotato delle lampadine, le avevano riempite di qualcosa. Nino che era lesto, le ha lanciate contro i fascisti colpendo il Prefetto e poi tutti hanno tagliato la corda. Non è successo niente di grave, ma Nino era stato riconosciuto e ha dovuto nascondersi.

Si può dire che allora fu il primo assaggio della vita clandestina.

È rimasto per alcuni mesi nascosto in casa di una vecchia zia, per non essere arrestato. Poi suo padre riuscì a fare qualcosa per mettere a tacere l'episodio".

Violenze fasciste nel lecchese

Il sorgere del fascismo nel lecchese ha cause analoghe a quelle che ne favorirono l'ascesa in tutta Italia. Gli anni del dopoguerra sono di crisi economica, di disoccupazione, di miseria. Invernizzi, parlando di Vera con Mario Melloni, col quale era in contatto nel '44 durante il periodo della lotta clandestina a Milano, dice: "Quando l'ho conosciuta, molti anni fa, non aveva mai portato un paio di scarpe, tanto erano poveri a casa sua". E la famiglia di Vera non era che una delle tante famiglie operaie di quei tempi. "Anche a Lecco - scrive Silvio Puccio - a leggere i giornali del tempo, si scopre che il fascismo nasce essenzialmente per opera di ex ufficiali, reduci della grande guerra e di qualche transfuga del radicalismo cermenatiano… Questa sorta di radicali anticlericali, pieni di patriottismo, che amano l'ordine e anche le buone mangiate e certe volte il fascismo avant lettere".
 

L'importanza degli appunti autobiografici di Gaetano Invernizzi sulla sua maturazione durante la guerra (prima guerra mondiale) e nel periodo successivo, sta proprio nel fatto che essi documentano il cambiamento che avveniva in lui e i migliaia di giovani come lui. L'avversione alla guerra si fa più sentita e si sviluppa in una vocazione antimilitarista popolare, in un desiderio dissacrare gli altari della retorica nazionalista e patriottardo, anche di fronte alla violenza fascista.
"Eri attaccato, bastonato dai fascisti. Ogni giorno ne sentivi una - racconta Vera - si dormiva coi sassi sotto il letto. Alla fine Nino era costretto a girare armato. Veniva a trovarmi e io mi accorgevo che portava due pistole, una per parte".

 

Nell'agosto del 1922, verso le sette di sera, una squadraccia appostata in via Catania aveva sorpreso Gaetano Invernizzi che stava dirigendosi alla vicina Camera del Lavoro in via Gran Sasso: i fascisti, armati di bastoni e spranghe di ferro, lo assalirono e lo lasciarono sanguinante a terra, ma Gaetano era riuscito a rialzarsi e a raggiungere i compagni della Camera del Lavoro dove era stato medicato alla meglio. Poi era stato accompagnato a casa della fidanzata e qui aveva deciso di allontanarsi da Lecco per un po' di tempo e di salire con i compagni più esposti ai pian dei Resinelli, dove vengono ospitati da Steven, un antifascista, in una cascina di sua proprietà. Quando si decide a tornare a Lecco, Gaetano non trova più lavoro: Piloni, grazie alle squadre fasciste, era riuscito a cacciare dalla fabbrica il "sobillatore". Spera di poter ricominciare in Toscana, dove trova un lavoro a Pontedera: "ma dopo 15 giorni abbandonavo la città perché sentivo stringersi attorno a me un cerchio che mi soffocava. Proprio nel giorno del mio arrivo erano stati uccisi quattro compagni, fra i quali il segretario della Camera del Lavoro". Ritorna allora a Lecco. "Ritornato a Lecco tutti i compagni mi consigliarono di emigrare. Il fascismo, da Napoli, annunciava la sua marcia su Roma. La sola forza capace di resistergli, la classe operaia era stata sconfitta. Approfittando del fatto che la società umanitaria stava organizzando l'espatrio di 11 lavoratori per la Francia riuscii a farmi includere nella lista. Eravamo al 20 ottobre del 1922, sui giornali francesi poté leggere una decina di giorni dopo i resoconti dell'operazione compiuta dal fascismo con la complicità della monarchia".

L'esilio in Francia

Giunti in Francia, gli 11 lavoratori italiani partiti da Milano con Invernizzi devono prima superare un controllo medico. Cinque di loro, tra cui Gaetano, non vengono dichiarati abili ai lavori pesanti per i quali erano stati ingaggiati in Italia. Alla prima delusione se ne aggiunge una seconda: credendo di poter ricevere comprensione e assistenza i cinque si recano alla sede della CGT (Confédération Générale du Travail) di Digione, dove però non trovano alcun aiuto. Nuove braccia sul mercato del lavoro minacciano il potere contrattuale dei lavoratori locali, e i nuovi arrivati sono pur sempre degli stranieri…

 

Inizia per Invernizzi quella che egli stesso definisce "una nuova vita dolorosa. Bisogna averla provata la vita dell'migrante, come l'ho provata io, in quelle condizioni, per comprendere la via crucis a cui sono sottoposti i nostri lavoratori all'estero".

Tovano da dormire in una piccola locanda; la spesa è di quattro franchi per notte: molte per chi, come loro, non ha che pochi giorni di autonomia se non inizia subito a lavorare. Occorre fare economie, la sera soltanto la cena. Il giorno dopo accettano il primo lavoro che viene loro offerto: un parassita - come lo definisce Invernizzi - promette 25 Fr. al giorno per lavori di sterramento e di disboscamento in una foresta 20 km da Digione lontano dai centri abitati. È un lavoro pesante, durissimo, che i lavoratori locali non accettano più. Lo fanno gli emigrati. "Senza soldi noi non facevamo altro che mangiare pane asciutto: 9 kg al giorno per cinque persone. Niente coperte per coprirsi nel pagliaio, niente acqua per lavarsi e per fare da mangiare. Andavamo dai contadini ma questi avevano fortissime prevenzioni contro gli stranieri. Dopo qualche settimana di lavoro ci accorgemmo che, al massimo, avremmo guadagnato 10 Fr. al giorno". 
 

Riscosso il primo salario Invernizzi decide di partire per Parigi, dove nei primi giorni viene aiutato da alcuni amici. Ma non conosce ancora la lingua, vorrebbe impiegarsi come tappezziere e non sa a chi rivolgersi, anche alla Bourse du Travail non trova aiuto. Gli ultimi spiccioli finiscono presto, comincia a vendere prima un paio di scarpe che si era portato dall'Italia, poi altri effetti personali, per sopravvivere."Ovviamente, quando non ero invitato da qualche compagno o da qualche amico, il mio pasto si riduceva ai minimi termini". Si adatta a qualsiasi lavoro: qualche giornata in un posto qualche altra in un altro, infine, viene assunto provvisoriamente in un'impresa nelle vicinanze di Parigi. Lavora in questa impresa tutto l'inverno. Ai primi di aprile del '23 chiede qualche giorno di permesso e ritorna a Parigi, dove finalmente trova lavoro come tappezziere in una piccola azienda artigiana. Nel frattempo, cerca di entrare a far parte dei gruppi di lingua italiana del Partito Comunista Francese ma non viene accolto perché non conosce nessuno che possa garantire per lui, non bastano le testimonianze di alcuni antifascisti lecchesi emigrati, né è sufficiente che egli partecipi a tutte le lotte promosse dagli organismi francesi. Invernizzi entra a far parte di quei gruppi solo nel 1926.

 

Nel maggio del 1924 dopo l'assassinio di Matteotti, Invernizzi decide di rientrare a Lecco dove ,tra il 1922 e il 1924, durante il periodo in cui era stato in Francia, i fascisti avevano costituito le loro squadre locali. Ora essi non hanno più bisogno di chiamare le squadracce dalla provincia, sono autosufficienti e si accaniscono contro i comunisti. Ugualmente i fascisti si scatenano contro i socialisti unitari. Dopo gli aderenti dei partiti operai fanno le spese della violenza fascista anche repubblicani. Per ultimo è travolto dalla violenza anche il Partito Popolare. Se Invernizzi, come molti antifascisti, nel 1924, si era illuso che sussulto di indignazione di collera che aveva scosso l'Italia alla morte di Matteotti fosse il segnale di inizio della lotta e per l'abbattimento del fascismo, ed era rientrato per questo, dovette ricrederti ricredersi ben presto. Bastano poche settimane di soggiorno a Lecco, perché la situazione non gli lasci molte scelte: "Rimasi a casa un mese ma gli avvenimenti e alcune informazioni confidenziali sulle intenzioni della polizia nei miei riguardi mi convinsero a ritornare a Parigi".

 

Nel frattempo aveva rivisto Vera e insieme avevano deciso di unire le loro vite. Tornato in Francia Gaetano, che era stato raggiunto dalla famiglia riesce a farla espatriare assicurandole un lavoro come domestica presso una famiglia francese. Vera giunge a Parigi il 21 settembre 1924: "Cadeva di domenica - ricorda - Gaetano aveva affittato una piccola stanza con possibilità di cucinare in un hotel meublé. Appena entrata Nino aveva tolto da un piccolo armadio a muro una busta con dentro 200 Fr. erano tutti i suoi risparmi: "Domani - mi aveva detto - con la Marta vai alla Samaritaine a comprare i piatti e le pentole che ci occorrono". Marta era la compagna di Angelo Rossetti, un socialista nostro amico che era stato il primo Segretario della Camera del Lavoro di Lecco. A mezzogiorno abbiamo mangiato dai Rossetti e nel pomeriggio Gaetano e Angelo sono andati alla marcia delle camicie rosse. Ero arrivata alle nove del mattino, alle due del pomeriggio c'era questa manifestazione dei fuoriusciti antifascisti a Parigi: "tu e Marta ci aspettate al caffè". Ma come! Il primo giorno che arrivo, tu mi lasci subito da sola? Ero gelosa. Ero giovane. Capivo e non capivo. Sono rimasta con la Marta imbronciata. Mi sentivo offesa. Poi, col passare degli anni ho capito: "se io lotto per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, lotto anche per te" diceva sempre Ninno".

 

Vera e Gaetano si sposano nel febbraio del 1925 presso il Municipio del V Arrondissement di Parigi. Un mese circa dopo il suo arrivo in Francia, Vera si era ferita seriamente al collo e alle braccia per lo scoppio del fornello a benzina su cui stava cucinando; l'albergo di infimo ordine dov'erano alloggiati non disponeva di un impianto per cucina gas. Le cicatrici delle scottature le resteranno per sempre, e saranno motivo di maggiori rischi quando inizierà il lavoro clandestino per il Partito in Italia, perché potrebbero facilmente farla identificare dalla polizia fascista. "Io e la moglie di Willy, Maria Bergamini - ricorda Vera Ciceri - lavoravamo tra le famiglie degli immigrati italiani che vivevano per la gran parte in baracche della periferia". È un lavoro di base tra le donne: Vera e Maria avvicinano le madri, le mogli, le figlie di emigrati non solo per informarle e fare propaganda, ma per comprenderne i problemi e indirizzarle. Distribuiscono la stampa in lingua italiana, raccolgono per il Soccorso Rosso i fondi da inviare alle famiglie dei carcerati politici in Italia, spiegano alle donne che cos'era il fascismo e che cosa facevano i fascisti in Italia. Alla morte di Gaetano Sozzi, nel febbraio del 1928, portano la fotografia del martire nelle case, illustrando le infamie dei fascisti. È un lavoro duro, faticoso, tanto umile quanto indispensabile e non scevro da pericoli. Per prudenza spesso alcuni compagni le seguivano da lontano per proteggerle, poiché anche in Francia c'erano i fascisti. "Una domenica - ricorda Vera - mentre con questa compagna stavo distribuendo il giornale si sono avvicinati a noi tre fascisti per bastonarci e strapparci i giornali. E allora, s'è visto che la prudenza non era stata inutile perché sono intervenuti in tempo i compagni e sono state botte da orbi fin quando i tre non sono scappati; era un grande compito che dovevamo portare avanti tra gli emigrati: fargli sentire che l'antifascismo non era morto, che il nostro partito era sempre vivo e presente".

​

(n.a. Nel 1929 Gaetano partecipa al Congresso internazionale di Berlino, successivamente sarà espulso dalla Francia, riparando in Belgio e, in seguito, in Lussenburgo. Tornerà in Belgio dove assumerà importanti incarichi negli organismi direttivi del Partito Comunista. Vera è, naturalmente con lui e la vita non è per niente facile).

​

Vera racconta così il suo avvicinamento al Partito Comunista, una scelta autonoma non forzata dal compagno: "Nino non aveva mai cercato di forzarmi perchè entrassi nel Partito. Partecipavo al lavoro, alle lotte, ero contenta, ma voleva lasciarmi libera di scegliere. Sono entrata nel Partito nell'autunno del 1929. É stato l'incontro con Di Vittorio, a farmi decidere. Me lo ricordo sempre, era un uomo straordinario. In quel periodo Di Vittorio, con Cocchi, un cattolico antifascista emiliano, teneva delle riunioni, delle assemblee con gli emigrati. So che una sera ero stata ad ascoltarlo e per il suo modo di fare, di parlare, mi sono decisa. Quando sono tornata a casa la sera ho detto a Nino: "Faccio domanda di iscrizione al Partito Comunista". Lui era felice."

​

​(n.a. Con il passare del tempo Vera assume un ruolo sempre più attivo tra gli emigranti. A Parigi incontra Togliatti e Longo e lavora a stretto contatto con Rita Montagnana. Si occupa di molte azioni pericolose a cavallo tra Francia e Italia.)

​

La prima missione di Vera aveva per obiettivo il ristabilimento dei contatti con i vecchi compagni di Pordenone, dove nel 1931 era ripresa vigorosa la lotta dei tessili. Una volta in Italia si ponevano problemi pratici: quelle che sembravano difficoltà facilmente superabili, diventavano problemi gravi. Dove pernottare per esempio: in casa di compagni era spesso pericoloso perché anche essi potevano essere sorvegliati dalla polizia; poteva capitare che l'emissario presentandosi all'appuntamento vi trovasse un poliziotto. Andare in albergo era altrettanto pericoloso poiché gli albergatori avevano l'obbligo di denunciare alla polizia ogni cliente.

"Per esempio, nel '32 - ricorda Vera - vengo in missione a Milano; consulto il giornale "privato affitta camere, eccetera eccetera", in via Tadino a Porta Venezia. Tento, mi presento. Aprono la porta e mi vedo davanti sulla parete dell'anticamera uno stemma del fascio. Sono capitata bene... Potevo tornare indietro senza destare sospetti? Mi sono fermata."

Al rientro a Parigi Vera informa la direzione del partito del lavoro svolto: "Erano contenti del mio lavoro. Contenti perchè si era potuto constatare che il contatto era ancora sano."

Resasi conto delle sue capacità di organizzatrice, la direzione del partito la invita quale rappresentante italiana al Congresso della FGC che si terrà nel novembre nella Svizzera tedesca. Nel dicembre seguente Mario Montagnana giunge espressamente a Lione per chiedere a Vera e a Gaetano di porsi totalmente a disposizione del partito. "Noi abbiamo accettato e siamo partiti subito per Parigi; sempre un po' con dolore perché quando era un po' che ti trovavi in un posto ti affezionavi ai compagni. Comunque avevamo deciso, li abbiamo salutati, naturalmente non abbiamo detto dove andavamo, né cosa si andava a fare."

​

Vera e Gaetano sono tra i pochi che riescono a filtrare tra le maglie della polizia fascista. Ma sono segnalati. Per sottrarli alla vigilanza dei poliziotti, per contribuire alla loro formazione ideologica e politica, e anche per permettere di distendere i nervi logorati dal lavoro clandestino condotto in Italia, la direzione del Centro Estero di Parigi decide di inviarli alla scuola dell'Internazionale Comunista a Mosca. Il viaggio per l'Urss, verso la fine del 1932, è molto rischioso: passaporti falsi, cambio di generalità a ogni frontiera, nessun rapporto se non con l'organizzazione del partito che li accompagna di tappa in tappa. A Mosca Vera e Gaetano passeranno oltre due anni e mezzo di vita severamente regolata.

L'arresto

Gaetano e Vera vengono arrestati il 13 giugno 1936 a Milano. Come la polizia sia arrivata sulle loro tracce, ancora oggi è un mistero. Invernizzi stesso, nel 48, già deputato, indaga presso il Tribunale Supremo dove erano stati depositati i documenti del disciolto Tribunale speciale, ma non riesce a ottenere che la copia della sentenza e a prendere visione del rapporto di polizia.

 

Qualche settimana prima dell'arresto, gli Invernizzi avevano già deciso di rientrare in Francia: il soggiorno si era protratto troppo a lungo, e il loro passaporto aveva un visto di entrata superiore ai sei mesi. Tentare l'espatrio in quelle condizioni era troppo rischioso: come avrebbero potuto rispondere esaurientemente alle domande della polizia di frontiera?

 

Così vera ricorda l'arresto:

Era un sabato e Nino era uscito. [...] Io ero in cucina a preparare un po' di minestra, avevo apparecchiato il tavolo e non lo vedevo arrivare. Dato che noi eravamo sempre puntuali, ognuno sapeva che se l'altro ritardava era perché era successo qualcosa di anormale. Tutto a un tratto sento bussare, vado ad aprire e mi trovo sulle scale la padrona di casa con due dietro. Sono entrati, mi hanno messa subito contro il muro."Lasciatemi almeno spegnere il gas, no! Che modi sono questi? Chi siete?" Tirano fuori la tessera. E vabbè! Contro il muro non potevo muovermi.Uno dei due, un tipo alto e magro si guarda attorno, vede sul buffet i libri tecnici sulla tappezzeria delle automobili Fiat (la copertura di Nino). [...] Frugano dappertutto, buttano all'aria tutta la casa, tagliano la tappezzeria delle pareti in cerca di documenti: non trovano niente, io pensavo: meno male che la valigetta l'ho portata via proprio ieri. Non temevo per noi, l'avevo capito che per noi era finita, ma se trovavano i documenti potevano essere compromessi altri compagni. Poi un poliziotto mi prende per il petto e mi fa: come siete entrati in Italia? Ci faccia vedere come si apre questa valigia!
Accettando di lavorare per il partito in Italia, sapevamo cosa si rischiava; ogni qualvolta si rientrava era come una sorpresa: anche stavolta l'abbiamo fatta franca! Ma si sapeva di avere un appuntamento con quel momento. Molti compagni cadevano ed erano caduti. Che un giorno o l'altro sarebbe toccato a noi non era improbabile. E ora c'ero dentro. Mi sarei fatta più coraggio se Nino fosse stato lì con me. Ero sempre contro il muro con quei due che mi tempestavano di domande e io fino allora avevo negato tutto.

 

Vera entra a San Vittore la sera stessa verso le 22, viene rinchiusa in una camera di sicurezza, piena di cimici con un caldo soffocante. Non riesce a dormire sul tavolaccio e passa tutta la notte su uno sgabello. Per tutto il giorno resta in isolamento. Il giorno dopo la prelevano per l'interrogatorio. [...] A questo punto le sembra insostenibile la linea di difesa di assoluto diniego che aveva concordato con Gaetano in caso di arresto: sapevano già chi fosse, poteva negare? Tanto valeva difendere il partito, per dimostrare che non avevamo paura, che non si indietreggiava. [...] L'interrogatorio era iniziato con cortesia: l'offerta della sigaretta, del biscotto e del caffè.poi si era fatto più serrato. 

L'esperienza carceraria

Vera, nel penitenziario femminile di Perugia, la più severa delle tre case di pena femminili in Italia, sconterà quattro anni di pena; tre le saranno condonati, sarà libera quindi nel giugno del 1941.
Tra le detenute per reati politici che le saranno compagne di pena per periodi più o meno lunghi, Valeria Wacherhusen, Adele Bei, Maria Bernetic, Anna Bazzini, Marcellina Oriani, Camilla Ravera e Maddalena Secco. In tutti quegli anni, vivono quasi sempre in uno stato di semisegregazione, in celle singole, ma con brevi parentesi di vita comunitaria durante i periodi di aria, ai pasti e nell'ora concessa per scrivere le lettere sotto sorveglianza di una suora carceriera.
 
D'inverno il freddo era tale, ricorda Vera, «che al mattino sull'acqua della bacinella c'era uno strato di ghiaccio»; d'estate per l'afa e per la mancanza d'aria, «ti stendevi sul cemento del pavimento per cercare inutilmente refrigerio». Una pagnotta ai pasti, una gavetta di zuppa, l'acqua da bere e nient'altro; alla domenica un pezzetto di carne «dura come un mulo». Qualche concessione in ricorrenza delle feste del regime, il 21 aprile e il 28 ottobre e nelle feste religiose: pastasciutta e l'autorizzazione a ricevere pacchi da casa.

 

Senza un aiuto esterno non era possibile resistere per anni: Vera e Gaetano avranno la possibilità di contare quasi regolarmente su un aiuto di duecento lire mensili che pervengono loro dalla sorella di Vera, dal fratello e dal padre di Gaetano. Qualcuna come Adele Bei, riceve aiuti dal Soccorso rosso tramite i familiari.

 

Vera nelle sue lettere chiede a Gaetano consigli sui libri da leggere, o sulle riviste da acquistare quando sono concesse. Ma le letture agognate sono le lettere di Gaetano, dalle quali trae nutrimento spirituale, nuova forza per resistere e vincere le difficoltà che non sono solo quelle materiali: freddo, caldo, fame, debolezza fisica, malattie; ci sono altri tormenti non meno dolorosi, non meno difficili da superare se non si ha uno spirito ben forte.

 

Già il commissario che li aveva arrestati a Milano, durante l'interrogatorio aveva cercato di corromperli: « Siete anche giovani, avete davanti a voi vent'anni di carcere. Il fascismo, ormai, se sperate che cada vi illudete. Fate domanda di grazia » E la proposta era rinnovata ai detenuti quando era utile alla propaganda fascista, con accento benevolo, con il tono di chi dà un consiglio fraterno, dal direttore del carcere, dalla suora carceriera, o indirettamente attraverso i familiari, sulla debolezza e sul dolore dei quali era più facile fare pressione.

​

«Quello di offrirti la grazia era un modo come un altro per cercare di annientarti -dice Vera-. Eri sola con la tua coscienza, e lunghi anni di carcere davanti a te, bastava mettere una firma. Una forma di tortura anche quella. In quel periodo erano parecchi gli antifascisti in carcere, centinaia, forse migliaia. C'è stato chi ha chiesto la grazia. Ma io ho sempre sostenuto che Mussolini non poteva durare. Non lo sapevo, non potevo saperlo: lo sentivo. Sentivo che in un modo o nell'altro si sarebbe fatta giustizia. Questa è stata la mia forza, è stata la forza del mio Nino. Chi ha resistito ha vinto; chi faceva domanda di grazia, cessando di lottare non era più nessuno, era finito. Ma non era facile. Tra di noi c'era chi ha dato tutto, tutta la sua vita ha coinciso con l'ideale di giustizia che il nostro partito portava avanti. Altri hanno dato meno, quanto era nelle loro forze. Il partito è fatto di uomini, no? Ho conosciuto tanti compagni molto diversi l'uno dall'altro. Ho conosciuto degli eroi e ho conosciuto dei traditori; chi parlava molto e faceva poco, ma la sua capacità di parlare l'ha poi fatto salire in alto e compagni che hanno fatto moltissimo senza mai apparire; penso a molti di loro, a quello che hanno patito nelle fabbriche, durante gli anni della lotta clandestina; penso ai loro sacrifici, ai rischi, alle sofferenze, alla miseria, al grande lavoro che hanno portato avanti e penso che di loro oggi molti compagni non si ricordano neanche più il nome. Una volta in montagna, sul Pizzo d'Erna, proprio dietro una roccia, in un posto dove era difficile che qualcuno passando potesse notarli, avevo visto dei fiori molto belli. Non so neanche che fiori fossero, so che erano belli. Mi son detta: toh, è proprio un caso che mi son fermata qua e ho visto questi bei fiori. E poi mi son chiesta perche mai fossero cresciuti proprio lì se la loro bellezza non sarebbe mai stata goduta da nessuno. Ecco: penso che per la vita di tanti nostri compagni è stato lo stesso come quei fiori ».


Un'altra forma di pressione sui detenuti era quella religiosa: «Tanto a San Vittore che a Perugia, c'era la predica della suora e del direttore per mandarci in chiesa alla domenica. Ma io non sono credente, perchè dovevo andare a Messa? Era una lotta con la suora: "Lei venga così solo per fare atto di presenza". "Ma no, io non faccio nemmeno quello". "Noi non possiamo lasciarla qui sola. Anche noi andiamo in chiesa". "Mi chiudete dentro, mettete il catenaccio, c'è la grata alla finestra, come faccio a scappare?"».

 

«Non è che il partito -osserva Vera - ci dava delle direttive. Anche per non renderci la vita del carcere più dura di quanto fosse, il partito diceva di fare come volevamo. Ma io non volevo. Potevano togliermi anche quella libertà? ».

 

La vita in comune creava una solidarietà reciproca per resistere alla pena della vita del carcere, ma era anche motivo di scontri su questioni di principio.
La sete di notizie dal mondo esterno, il non poter sapere esattamente quel che succedeva fuori delle mura del carcere era un altro tormento del detenuto. Qualche volta la suora ci passava sottomano Il Corriere della sera.

 

Il ritorno a casa

« Si viveva così: attraverso qualche voce, qualche notizia che giungeva si cercava di capire cosa succedeva fuori nel mondo e passavano gli anni. Io ne ho fatti cinque su otto. Sono stata ancora fortunata perchè ho avuto tre anni di condono, una volta un anno e un'altra due, per la nascita dei rampolli del principe Umberto. Sono uscita nel '41, in giugno, proprio quando i nazisti hanno attaccato l'Unione Sovietica » .

 

Al ritorno a Lecco trovò ospitalità in casa della sorella: il cognato, un operaio che aveva anch'egli grandi problemi per il mantenimento della propria famiglia, non le negò aiuto. Anche se ammalata, era necessario che trovasse subito un lavoro per vivere: finalmente viene assunta in una bottega artigiana come saldatrice, aveva perso venti chili in carcere, era ancora debole, ma lavorava dodici ore al giorno.

 

Gaetano dal carcere le scriveva preoccupato per la sua salute. La polizia controllava spesso la sua presenza in fabbrica; anche a casa, di notte, venivano a sorvegliarla.

 

Appena ristabilita, aveva ripreso i contatti coi compagni del partito di Lecco ed era entrata a far parte del direttivo. Ottenuto il permesso di un colloquio con il marito si reca a Castelfranco; gli porta un po' di roba, indumenti e cibo che i compagni di lecco hanno raccolto.
« Quando l'ho visto in carcere m'ha abbracciata e m'ha detto : " Abbraccio un fascio d'ossa! ".

 

(Alla scarcerazione di Gaetano è ​legato un episodio di vero eroismo)

​Il 25 luglio 1943 sotto la spinta convergente delle sconfitte subite in Africa in Russia e delle lotte operaie del triangolo industriale, cade Mussolini.mentre il governo Badoglio cerca invano di conservare il carattere totalitario repressivo del regime, la spinta popolare reclama pace e democrazia.uno degli obiettivi prioritari è la liberazione dei detenuti politici, che rappresentano i quadri più sperimentati dell'antifascismo, ma le liberazioni avvengono molto lentamente e fra infiniti contrasti.tenere i nervi saldi, in quei giorni di fine agosto 1943 era prerogativa di pochi, che rivelava lo stampo del dirigente operaio.

Ecco, dalla testimonianza di Carlo Ciceri, il racconto della drammatica liberazione dal penitenziario di Castelfranco:

​

"Invernizzi non si tirava mai indietro, era coraggioso. noi siamo usciti il 28 agosto del 43. Mi ricordo perché si doveva essere fuori da più di un mese e si era furenti. I giovani bollivano e un giorno si sono ribellati, hanno scardinato i cancelli e sono scesi in cortile. Una lotta che non ti dico tra Invernizzi e Venanzi per calmarli: "Calma, calma, se uscite fuori vi ammazzano tutti!". Perché dal carcere avevano messo in giro la voce che i politici dentro la prigione avevano ammazzato dei "superiori" (i secondini). Allora era arrivato l'esercito, aveva circondato il carcere e piazzato le mitragliatrici. Era un momento di tensione fortissima. Invernizzi allora si è messo a torso nudo e si è arrampicato sul cancello della prigione per parlare ai soldati: "Non sparate, non sparate! Siamo detenuti politici, non siamo assassini: qui non è stato ucciso nessuno!" Un fegato! Cosa che se trovavi un ufficiale balordo, con la tensione che c'era, te lo inchiodavano al cancello! E alla fine si è poi costituita una delegazione che è andata a Roma e là ha potuto avere copia dei nostri documenti perché gli originali erano andati persi nella questura di Milano, distrutta da un bombardamento. Così, finalmente, siamo stati liberati, era finita la galera per noi"

La resistenza in montagna e nelle fabbriche

La prima notte di libertà insieme Gaetano e Vera dormono in casa della sorella che, col marito, va ad altri parenti e cede loro il proprio letto.

Il giorno dopo i vecchi amici di Invernizzi con il ricavato di una colletta gli offrono un vestito e un paio di scarpe.

​L'8 settembre è Gaetano che sul muricciolo del viale che porta alla canottieri Lecco, vicino alla caserma Sirtori, parla alla popolazione intervenuta molto più numerosa del previsto. Il dire come aveva fatto tanta gente a sapere che ci saremmo riuniti lì è cosa impossibile. Alle 18:00, apprendevamo dalla radio la notizia dell'armistizio, alle 20 avevamo fissato l'incontro. Si poteva supporre che ci sarebbero stati dei comunisti a quell'incontro perché anche se gli ordini erano di non scoprirsi, durante i 45 giorni di Badoglio le maglie della clandestinità si erano allentate e molti compagni e simpatizzanti si erano riconosciuti. Certamente, avevano potuto tra loro far correre la voce. Ma nei pressi della caserma c'era tanta popolazione quanta non potevamo aspettarci.

Gaetano Invernizzi parla alla gente di Lecco indicando la strada dei monti e il dovere di armarsi e di combattere. Si batte fin dall'inizio contro quelle tendenze che volevano i partigiani sul piede d'attesa, proprio fin dall'otto sera. Il 9 settembre dunque esattamente il mattino dopo, sono usciti i soldati della caserma.

Fonti bibliografiche
51YiXJqdjcL._SY445_SX342_ControlCacheEqualizer_.jpg

Alasia, F ., 1976, Gaetano Invernizzi, dirigente operaio, Vangelista, Milano

bottom of page