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Pio Galli. La scelta di resistere
Dopo gli scioperi del '44, assieme agli amici Romolo e Piero, Pio decise che era arrivato il momento di raggiungere le formazioni partigiane della Valsassina. Purtroppo, furono presto arrestati ma riuscirono a scappare. Da Milano tornarono a Lecco a piedi e si unirono alla 55ª Brigata F.lli Rosselli. Finita la guerra Pio Galli entrò nella polizia popolare.
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Questa pagina riporta il contenuto dell'intervista raccolta da Isabella Lavelli nel 2005, nell'ambito dell'inchiesta "Sessant'anni Resistenti" e disponibile in versione restaurata su Youtube e in questo sito web.
Indice della pagina
Il bisogno di fare qualcosa
"Bisogna andare coi partigiani".
È il ritornello che ormai ci ripetiamo tutti i giorni, quando ci si ritrova dopo il lavoro nella piazzetta di Rancio. Bisogna rompere gli indugi, non possiamo più aspettare. C'è chi ci ha preceduto. I tre nostri amici di Rancio: Giuseppe Maggi, Virgilio Panzeri e Carlo Bonacina sono già andati in montagna da mesi. Adesso sentiamo che tocca anche a noi combattere contro i fascisti e i tedeschi. È già dall'inverno che io, Romolo e Piero meditiamo su questa decisione. E siamo tutti e tre d'accordo. Siamo coetanei, tutti e tre del '26. Io li conosco da nove anni, da quando ci siamo trasferiti da Valmadrera a Rancio. Dalla fine della scuola in avanti siamo stati sempre insieme; siamo stati il nucleo del gruppo del Bas. Da quando abbiamo cominciato a lavorare e si guadagna qualcosa, se si prende una maglia nuova la si prende uguale, almeno Piero e io. Romolo è più indipendente. Piuttosto piccolo, magrolino; è un ragazzo molto riservato, di poche parole, quasi taciturno, ma anche uno intelligente, che sa fare i fatti. Io forse sono il più vivace e il più ciarliero dei tre. Piero è un bonaccione come me, piuttosto cicciottello e ripieno: ci assomigliamo abbastanza anche fisicamente. Ho ancora una fotografia di quegli anni in cui Piero e io siamo insieme e sembriamo fratelli.
I fatti del marzo '44
I tre inseparabili hanno deciso: vogliono andare a combattere con i partigiani.
"Dobbiamo seguire l'esempio dei nostri amici"
"Adesso è necessario, non si può più aspettare"
"Tanto corriamo dei rischi anche restando qui e serve a meno. Qui al massimo possiamo distribuire volantini".
L'ultima spinta ce l'hanno data i fatti del marzo del '44 con gli scioperi a Lecco e la retata dei fascisti. Il Comitato di agitazione clandestino di Lecco ha proclamato e organizzato una settimana di scioperi contro la guerra, per il pane e il salario. Il 7 marzo alle dieci del mattino, suona come al solito la sirena del comune, che ogni mattina fa la prova di allarme per i bombardamenti aerei. Quel giorno la sirena è il segnale convenuto per lo sciopero. Si fermano i lavoratori del primo turno, e del turno giornaliero, delle maggiori fabbriche di Lecco. Lo sciopero dovrebbe durare solo due ore, fino a mezzogiorno. Ma quando entrano i lavoratori del secondo turno, decidono anche loro di scioperare.
I fascisti e i tedeschi, che fino a quel momento hanno lasciato fare, contando sul fatto che 1'agitazione resti piuttosto circoscritta e si esaurisca in poche ore, decidono di intervenire con una grande retata nelle fabbriche. Prendono 31 operai, che verranno poi deportati in Germania nei campi di concentramento. Quindici di loro non sono più tornati.
Io degli scioperi non so nulla. Mio padre è informato ma non mi dice niente, forse per proteggermi dalle possibili conseguenze e anche il Carenini, che in fondo è antifascista, non mi dice niente. Sono a lavorare nella sua officina come tutte le mattine e il suono della sirena non ha alcun significato per me. Comincio a capirci qualcosa solo a mezzogiorno quando, durante l'intervallo, vado a casa a mangiare e incontro diversi amici di Rancio.
"Hanno scioperato all' Arlenico e al Caleotto, alla Badoni, alla File, alla Bonaiti". La cosa mi colpisce perchè parlano anche della fabbrica dove lavora mio padre. Appena a casa gli chiedo perchè non mi ha detto niente:
"Cosa c'entra, tu non potevi mica fare lo sciopero lì dal Carenini. Sono le grandi fabbriche, nelle città, che devono scioperare".
Ripensando a quel giorno mi viene in mente un fatto. Mio padre aveva un amico, che lavorava al Caleotto, si chiamava Ripamonti ed era un fascista dichiarato, però erano amici lo stesso. Quel giorno, mentre stavamo mangiando e parlavamo proprio dello sciopero, è arrivato a casa nostra quel tizio, ha chiamato mio padre fuori di casa e gli ha detto qualcosa. Mio padre si è messo la giacca e le scarpe e se ne è andato. Il suo amico deve averlo avvertito che correva il rischio di essere arrestato. Non ne ho le prove, ci ho riflettuto anni dopo, non ne ho mai parlato con mio padre, ma ne sono convinto.
Nel pomeriggio le squadre fasciste sono entrate nelle fabbriche in sciopero, si sono fatte dare dalle direzioni gli elenchi con i nomi e hanno arrestato 31 operai: alcuni catturati in fabbrica, altri presi a casa.
Al Bas, alla Fera e a Castione la sera non si parla d'altro, ma tutta Lecco è come sotto shock. Anche perchè i fascisti non hanno rinunciato a dare spettacolo e hanno fatto sfilare gli arrestati in catene per le strade del centro. Il giorno dopo li portano alla stazione, fra l'indignazione della gente. Li deportano in Germania. Molti di loro perderanno la vita nel campo di concentramento di Mauthausen. La gente osserva muta, non ha la forza di protestare e di esprimersi, ma è indignata.
Io tra gli arrestati conosco quelli di Rancio, alcuni dei quali erano già capi operai conosciuti, ma il fatto che mi sorprende di più è che hanno preso anche Carmine Berera, un ragazzino striminzito, anche lui di Rancio e della mia età, che era stato a scuola con me, ma non faceva parte del nostro gruppo. È un buon ragazzo, tutto casa, chiesa e lavoro, proprio un cattolico, certo non un sovversivo. L'arresto di Carrnine colpisce profondamente molta gente. Ognuno pensa: questo è uno come me.
Ciò che ferisce di più è la bestialità della rappresaglia fascista di fronte a uno sciopero che sentono assolutamente giusto e giustificato dalle condizioni di vita e di lavoro, dalla fame a cui il fascismo ci ha portati. Naturalmente, più volte si è sentito parlare delle violenze dei fascisti, ma per la prima volta la bestialità è arrivata anche qui. Bisogna reagire. La. sera del 7 marzo esplode la rabbia. È quella sera che prendiamo la decisione finale. "Che cosa stiamo qui ad aspettare ancora, dobbiamo trovare il modo per andare subito su in montagna a combattere con i partigiani contro i fascisti".
Lasciamo le nostre famiglie
Siamo d'accordo tutti e tre. Ora si tratta di convincere le famiglie e di trovare i contatti. Bisogna anche convincere i capi, i più grandi di Rancio, che la nostra non è una ragazzata. Ognuno ne parla in famiglia con i suoi, ma decidiamo insieme cosa dire: "Vogliamo andare in montagna. Qui non possiamo più restare". Decidiamo di dire "in montagna" e non “con i partigiani". È un piccolo trucco, una mezza bugia per convincere più facilmente le famiglie, superare le opposizioni. Ma i miei, naturalmente, capiscono lo stesso.
"Ma perchè dovete andare, avete il vostro lavoro. Prima o poi la guerra finirà"
"No, qui le cose vanno sempre peggio, tirarsi indietro non va bene. L'altra cosa è che se restiamo qui, prima o poi i fascisti ci chiameranno sotto le armi".
Salire in montagna con i partigiani era anche un modo per sfuggire al servizio militare. Io, Romolo e Piero, abbiamo 18 anni. Di solito chiamano a 19-20 anni, ma fra i volontari prendono anche quelli di 15. Però in quel periodo si parlava anche di un bando che chiamava in causa anche quelli del ’24, ’25, ’26…
Poteva toccare anche a noi, insomma. Questa componente esiste, ha un peso. Non siamo ancora stati chiamati e non siamo quindi di fronte a un'alternativa secca o di qua o di là. E questo è certamente uno degli argomenti che contano al punto che decidiamo di usarlo anche in casa.
"Diciamo che andiamo in montagna perchè se dobbiamo correre il rischio di essere chiamati a militare e mandati in guerra a combattere con loro, tanto vale fare come i nostri compagni e andare con i partigiani anche noi".
Nel frattempo, abbiamo già avviato il discorso con Renato Pennati, che è un operaio della Breda, un comunista, e con Demetrio Bianchi, barbiere di Rancio: li conosciamo da tempo e soprattutto sappiamo che sono stati loro ad avviare in montagna i nostri amici l'anno precedente. Noi in quel momento ancora non sappiamo esattamente dell'esistenza del comitato clandestino di Lecco, che era un'articolazione locale del CLN. Però intuiamo che c'è qualcosa, che c'è qualcuno che organizza e che tira le fila. Perchè si trovano in giro i volantini, compaiono le scritte sui muri, c'è lo sciopero. È chiaro che non possono essere tutte iniziative spontanee e isolate.
Intanto riesco a convincere i miei a lasciarmi andare. "Vado con Romolo e Piero".
Anche mio padre conosce da tempo i miei amici. Alla fine lui capisce più di mia madre. Forse lei si è anche illusa che andassi in montagna a fare il vaccaio, ma mio padre ha capito: "Stai attento perchè i tempi sono duri, però va bene". Piero e Romolo fanno altrettanto. Le famiglie acconsentono anche se senza un particolare entusiasmo. Chi invece non sta più nella pelle siamo noi tre e andiamo incontro al rischio di morire, ma a 18 anni la viviamo soprattutto come una fantastica avventura. Quando si parla dei partigiani, ci appaiono dei personaggi grandi, forti, poderosi, come quelli dell'Intrepido e del Monello. Ci sono i buoni che lottano contro i cattivi e noi siamo affascinati dall'idea di stare dalla parte dei primi, di conoscere questi uomini coraggiosi.
I nostri contatti sono con Pennati e Bianchi. Il primo lavora alla Breda di Sesto San Giovanni, ha fatto gli scioperi del '43 e '44, è legato clandestinamente al partito comunista e ai partigiani. Tutti i giorni va e viene da Milano. A Rancio ci sono diversi operai che lavorano a Milano. L’altro è il barbiere, anche lui comunista, è un uomo attento e preparato politicamente. Entrambi sono tra i 30 e 40 anni, parlano poco, ma quando parlano lasciano il segno, capisci che è gente che ragiona, che legge, che conosce, che sa i fatti.
Demetrio "ti spiegava le cose"
Prima io parlo con Demetrio, perchè con lui ho un po' più di confidenza. È un uomo che ha quasi il doppio della mia età, alto, ma o con un viso scarno e sciupato che ricorda che non ha mai goduto di una gran salute. Demetrio è il barbiere di Castione, ma per tanti qualcosa di più. Legge libri e giornali, è tra i pochissimi di Rancio che ha una radio e si sa che ascolta le trasmissioni di Radio Londra, è sempre molto informato, anche perchè fa i capelli agli operai che lavorano nelle fabbriche di Milano.
Io ci andavo volentieri fin da ragazzetto. Il suo negozio era a pochi passi dalla piazza di Castione e proprio lì davanti c' era uno dei muretti della mia adolescenza. Demetrio era per me una fonte di conoscenza. Era un ragionatore suadente e convincente. Ti spiegava l' andamento della guerra, la crisi del fascismo. Negli anni della guerra io capii che era un comunista e avevo fiducia in lui.
"Senti Demetrio, siamo noi tre, Piero e Romolo e io, che vogliamo andare coi partigiani" .
"Ma ci avete pensato bene? Non è mica andare a fare i giupì".
Il gioppino è una marionetta bergamasca con tre gozzi che fa ridere. Il barbiere ci fa incontrare tutti e tre con il Pennati che è quello che ha i contatti con il distaccamento dei partigiani in Valvarrone. Capiamo che è lui che ci sottoporrà all'esame finale" .
"La vostra gente cosa dice? Non è che poi viene fuori che siamo stati noi a mandarvi, dev'essere una scelta vostra".
Il parere dei familiari per loro è importante. Spieghiamo che le nostre famiglie sono già d'accordo. Il reclutamento avviene così in due incontri, il primo dal barbiere, il secondo non ricordo più se nella piazzetta di Rancio o in casa del Pennati.
"Va bene. Allora dovete andare a Sommafiume, sotto il Legnone. Lì troverete gli altri. Dovete prendere il treno, però non a Lecco dove c'è la polizia ferroviaria fascista, e scendere alla stazione di Dorio, sul lago. A Dorio non scende quasi mai nessuno, scendete lì e qualcuno che vi accompagnerà in alto a Sommafiume".
Subito dopo entra una ragazza...
Ci hanno detto di non portarci dietro tanta roba, un cambio di biancheria e poco più. Ma da casa dovremo partire ognuno con un proprio zaino strapieno di indumenti, la maggior parte dei quali, sarà lasciata nella cantina del nostro amico Nando Testa. Caricati ognuno con un piccolo fagottello si parte.
Si va all'avventura, siamo in ebollizione, in una tensione straordinaria. Sono i primi di maggio e non fa più freddo. Salutiamo i nostri e partiamo da Rancio per Abbadia. Ed eccoci tutti e tre seduti sulle panche di legno del treno. Entriamo in uno scompartimento completamente vuoto, ma subito dopo entra una bella ragazza, si siede assieme a noi, ci mettiamo a parlare. A me non sembra vero, l'avventura si fa subito interessante.
"Dove andate?"
ci chiede. Ci guardiamo in faccia. Non conosciamo la ragazza e io comincio a sentirmi in trappola. Chi è questa, cosa vuole da noi? Perchè una ragazza sola, nonostante ci siano tanti posti liberi viene a sedersi proprio vicino a noi? Perchè vuole sapere dove andiamo? Abbiamo saputo dopo la Liberazione che faceva la spola sui treni per individuare i fuggitivi. Noi non abbiamo una vera e propria copertura.
"Stiamo andando a Colico a trovare dei parenti".
Ma forse con i nostri fagottelli non siamo troppo convincenti, forse diamo un'altra impressione. Romolo chiede a lei dove sta andando.
"Vado a Varenna, a prendere il traghetto che porta a Bellagio. Faccio un giro sul lago".
Tranquilli, sarà una che va a spasso. È bella e vestita bene; Lei insiste a chiederci dove stiamo andando; arriviamo a Varenna, scende dal treno, ci saluta e se ne va. Da Varenna alla stazione successiva di Bellano ci sono pochi chilometri, solo cinque minuti di treno. Arriviamo alla stazione di Bellano, il treno esce dalla galleria, si ferma. Guardiamo fuori dal finestrino, è come un tuffo al cuore: ci sono i fascisti.
"Ci siamo. Cercano noi!"
Un gruppo di camicie nere controlla l'uscita della stazione, mentre un altro si dirige verso la nostra carrozza, la circonda, sale sul treno. Siamo paralizzati dalla sorpresa e dalla paura. La grande avventura è finita. Siamo partiti da tre quarti d'ora e ci hanno già presi. I fascisti sono armati, in divisa grigioverde e camicia nera, sul petto portano un triangolo con su scritto "Brigata Temeritas" .
Sulla carrozza c'è altra gente e altri giovani come noi, ma quelli non controllano nessun altro, evidentemente hanno ricevuto un'informazione precisa e vanno a colpo sicuro. Siamo proprio noi quelli che cercano.
"Chi siete? Avete i documenti?".
Ci separano e cominciano ad interrogarci
In 8-10 ci circondano, ci fanno scendere dal treno, ci portano in una scuola a 200 metri dalla stazione. Ci trascinano dentro un' aula; sulla cattedra sta seduto un borghese, vestito di chiaro e con gli occhiali da sole neri. È lui che ci interroga.
"Chi siete? Dove andate? Voi state andando dai partigiani; siete dei traditori, dei vigliacchi, mentre gli altri muoiono per la patria...".
Noi ripetiamo ostinatamente la nostra storiella ma loro ci separano e cominciano ad interrogarci uno alla volta, per farci cadere in contraddizione, vogliono sapere chi dobbiamo incontrare. Viene il mio turno:
"Confessa che state andando in montagna."
"No!"
“Lo sai vero che in montagna ci sono i partigiani?”
“Sì lo so, ma io non c’entro niente!”
“Dove avevate appuntamento? In quale stazione dovevate scendere? Ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarvi? Come facevate per farvi riconoscere?”
"Vi ho detto che andavamo a Colico, a trovare dei parenti".
Alla fine di ogni interrogatorio l'uomo dagli occhiali neri ci lascia nelle mani di quegli scalmanati della Temeritas, che cominciano a prenderci a botte, a pugni e a calci. E questo dura per parecchio tempo. Mi fanno molto male. Dopo tanti anni sopporto ancora le conseguenze di quei pestaggi. Ho anche tanta paura, ma penso che bisogna tener duro. Non posso mica dirgli dove dovevamo andare. Tutti e tre siamo costretti a passare tra due file di fascisti, che ci picchiano di santa ragione. C'è sangue dappertutto. Io ho l'impressione di essere quello che le sta prendendo di più. Forse perché sento Romolo che grida: "Basta, lasciatelo stare, così lo ammazzate!".
Ci viene in mente la ragazza del treno, avrà telefonato a Bellano appena scesa. Possiamo esser stati traditi da qualcuno a Rancio? Lo escludo? I fascisti avevano le loro spie, sicuramente eravamo incappati in una di queste. Ne abbiamo avuto la certezza dopo la Liberazione.
Ogni tanto ci portava qualcosa da mangiare
Intanto siamo nelle loro mani, il problema è come uscirne vivi. La stessa solfa va avanti per tre o quattro giorni. Ogni tanto ci chiamano, ci interrogano e giù botte. Tra un interrogatorio e l'altro ci tengono nella scuola, buttati su delle brandine. Una donna che fa le pulizie ci mette in guardia.
"State attenti, non parlate! Badate che se dite dove dovevate andare, vi costringono ad accompagnarli sul posto e vi mettono davanti a loro!"
È una bidella della scuola, una donna anziana che ha due figli in guerra. Ogni tanto ci porta anche qualcosa da mangiare e cerca di rincuorarci. Dopo la Liberazione sono tornato a Bellano per rintracciarla; l’ho trovata e l’ho ringraziata. Ci aveva avvertito perchè, pochi giorni prima, un tale preso dai fascisti aveva rivelato il posto dell'appuntamento con i partigiani; lo avevano portato su in montagna facendolo marciare in testa alla loro squadra, c'era stato uno scontro a fuoco con i partigiani e lui era rimasto ucciso. I fascisti, intanto, ci minacciano di morte.
"Se non parlate vi fuciliamo qui in cortile!" Se parliamo rischiamo di fare la fine di quello che era stato ammazzato nello scontro, se non parliamo corriamo il pericolo di essere fucilati. Noi non parliamo, più per la paura che per il coraggio.
Ma la cosa peggiore, la più umiliante e la più angosciosa, è un rito che si ripete ogni pomeriggio, tutti ci giorni. Dietro alla scuola c'è una fabbrica di seicento operai, il cotonificio Cantoni, e
al momento del cambio del turno i fascisti ci fanno sedere sul muretto della scuola davanti alla fabbrica con addosso un cartello con scritto "partigiani" o "banditi". Tra gli operai e le operaie che passano c'è qualcuno che ti esprime solidarietà, lo capisci dallo sguardo, ma ce ne sono anche altri che ti insultano o ti sputano addosso. A Bellano in quel periodo c' erano dei fascisti che si erano resi responsabili di torture, come Larghi e Canclini che erano il terrore della zona. C'era, quindi, gente spaventata e sottomessa, ma anche un consenso reale per il fascismo repubblichino.
Non a caso a Bellano, nel dopoguerra, il Msi è sempre rimasto abbastanza forte e lo è tuttora. Romolo, Piero e io ci scambiamo qualche parola solo quando ci lasciano in pace tra un interrogatorio e l'altro.
“Teniamo..duro. Non bisogna parlare."
"Sì, ma come facciamo a venirne fuori?"
"Non ne ho idea. L'unica speranza è che non ci ammazzino."
Ma le minacce di fucilazione sono sempre più martellanti. Fintanto che, all'improvviso, un mattino ci prendono, ci legano tutti e tre insieme e ci incatenano col solito cartello addosso a prua di un battello. È il battello che da Colico passa per Bellano e va a Corno, facendo tutte le fermate nei paesi costieri. C'è gente che sale e che scende, e anche lì siamo esposti agli insulti.
"Bastardi. Traditori. Banditi."
"Bisogna fucilarli!"
Abbiamo paura. Si potrebbe arrivare addirittura ad un linciaggio. Arrivati a Corno ci scaricano, sempre legati, e da Piazza Cavour, dove arriva il battello, ci fanno passare tra la gente lungo la strada che va dritta alla questura. Non siamo più solo noi tre, sul battello ne hanno caricati altri che devono aver catturato in tutta la zona. A Corno passiamo la notte dentro le celle della questura, in un viavai di gente che urla per le torture. È una cosa impressionante. Ne vedo uno che ha tutti i capelli dritti, sembra diventato un porcospino. Non so se ce l'hanno fatto vedere apposta per spaventarci, oppure se l'abbiamo visto per caso.
A piedi ci facciamo tutta la Brianza
Ci allontaniamo piano piano, facendo finta di niente camminando lungo il muro di cinta della ferrovia fino alla fermata di un tram.
"Adesso dove andiamo?"
"Siccome il tram va a nord, andrà a Monza. Scendiamo all'ultima fermata e poi vediamo".
Nessuno dei tre è mai stato a Monza. Conosciamo le città solo dai racconti dei nostri amici di Rancio che lavorano da queste parti. Arriviamo al capolinea del tram, proprio nel centro di Monza. È uno di quei tram lunghi, dove si scende dalla porta davanti, ma lì vediamo due della milizia che chiedono i documenti.
Nel frattempo si è aperta la porta dietro e scendiamo un po' di corsa, intrufolandoci tra la gente che sale. Mentre camminiamo sul marciapiede sento una mano sulla spalla e qualcuno ci chiede dove stiamo andando. Il sangue mi si è raggelato. Era la ragazza che al comando tèdesco di Como ci aveva preso le generalità. Su nostra richiesta ci insegna come uscire da Monza. Ci avviamo così verso la periferia e prendiamo una strada di campagna. A piedi, in un paio di giorni, ci facciamo tutta la Brianza, non più sulla strada, ma attraverso i viottoli e i campi, fermandoci solo di notte, per dormire in qualche cascinale. Abbiamo molta paura di incontrare qualche pattuglia e di essere di nuovo catturati. Siccome poi siamo già stati identificati, se venissimo ripresi, sarebbe la fine.
"Adesso siamo proprio dei clandestini!"
Tra i prigionieri come noi che scappano, tra gente dell'esercito che cerca di tornare a casa, questo è un periodo che di sbandati ce ne sono in giro parecchi.
"Troveremo anche qualcuno che ci aiuterà!"
"Sì. Ma possiamo anche incontrare qualcuno che ci denuncia per prendere il premio!”
Alla fine, esausti, chiediamo ospitalità in un cascinale. Ci danno da dormire ma ci avvertono: "Badate che poco lontano da qui abitano i fascisti. Potete fermarvi per qualche ore, ma domattina alle tre ve ne dovete andare, perchè il rischio è troppo grosso per tutti".
Il giorno successivo, passando dall' Abazia di San Genesio, capiamo di essere vicini e dopo un po' arriviamo a Garlate. Chiediamo se c'è qualcuno disposto a farci traghettare. Ci indicano un lavoratore antifascista che volentieri con la sua barchetta ci porta a Maggianico.
Naturalmente dopo tutto quello che è successo, non possiamo certo ritornare a Lecco da Maggianico. Ci avviamo verso Acquate, passando da Canto, per poi salire in montagna. È una domenica pomeriggio di maggio e i pratoni di Canto, anche in questi mesi di guerra, sono pieni di gente che passa qualche ora all'aria aperta. Incontriamo parecchie persone che ci conoscono e che ci fanno festa.
"Allora ce l'avete fatta!"
"Cosa fate adesso? Tornate a casa?"
"No, no, come facciamo a tornare a casa? I fascisti ci riprendono subito!"
"Adesso andiamo in montagna! Prima era il posto dove volevamo andare. Ora è l'unico posto dove possiamo andare!"
"Non passiamo da casa. Dite ai nostri che stiamo bene. Non vogliamo rischiare ancora. Partiamo subito".
Ci consigliano di restare nei prati in mezzo alla gente fino a sera, perchè in giro ci sono tedeschi, che sono acquartierati nella scuola di Acquate. Quando è buio ricominciamo il cammino.
Ci ricordiamo degli zaini che avevamo lasciato nella cantina di Nando. Riusciamo a recuperarli grazie ai nostri amici di Rancio. A mezzanotte ripartiamo.
Ricordo le emozioni di quella notte. Scendiamo ad Acquate e passiamo da Rancio, proprio davanti alle nostre case, ma senza fermarci, e saliamo sul San Martino.
Da lì raggiungiamo i Resinelli, Pialleral, attraversiamo tutta la sottogrigna. Da Primaluna risaliamo poi per Pian delle Betulle fino ad arrivare a Premana e da lì in Valvarrone. In qualche giorno, siamo finalmente nella zona controllata dai partigiani.
"Dai scappiamo!"
Al mattino ci interrogano di nuovo, davanti al questore e al suo vice. Le domande e le accuse sono sempre le stesse. Tante altre botte, ma non vere e proprie torture. Ad un certo punto uno di questi picchiatori vede alla cintola di Romolo un medaglione con l'incisione di una testa di lupo e con la scritta "K2". Uno analogo l'avevamo anche Piero ed io, l' avevamo acquistato a Lecco durante la fiera di Pasqua: per il fascista era un simbolo di appartenenza ad una nuova Brigata partigiana ed è inutile dire quante botte ci costò. Dopo questo episodio ci consegnano ai tedeschi che, prese le nostre generalità, ci portano tutti alla stazione, siamo una quindicina, e ci rinchiudono in un carro bestiame che viene agganciato ad un treno per Milano. Ci hanno detto dove ci portano:
"Dove volevate andare voi? In montagna con i partigiani? Invece finirete in Germania in un campo di concentramento!"
In un paio d’ore, chiusi nel vagone piombato, arriviamo a Greco Pirelli, uno dei centri di smistamento ferroviario di Milano, dove sganciano il nostro vagone. Due militi fascisti aprono il portello del carro bestiame e distribuiscono un sacchetto a testa: dentro c' è qualcosa da mangiare e qualche indumento. Fuori si vede un sacco di gente. Si sta formando un treno per la Germania e ci sono anche molti lavoratori volontari in partenza, accompagnati dalle famiglie; si scambiano saluti, si passano pacchi, si riempiono bottiglie d'acqua per il viaggio.
"Ma allora adesso questi qui ci portano davvero in Germania!"
"Pio, Romolo -dice Piero- là fuori c'è un casino della Madonna, proviamo a scappare. Forse un'occasione così non ci capiterà più!"
In effetti, un tentativo di fuga non ci sembra troppo difficile. Nel carro non siamo legati, i due militi hanno lasciato aperto il portello perchè fa caldo e sono rimasti n fuori, ma intorno c'è una gran confusione con centinaia di persone che si aggirano dentro il centro di smistamento, che è circondato da un muro. Si può provare!
"Dai! Scappiamo!"
"Ma come facciamo a saltare quel muro?"
"No, non c'è mica bisogno di saltare il muro. Andiamo fuori dalla porta!"
"Ma alla porta ci sono delle guardie!"
La porta d'ingresso è davvero sorvegliata, ma si vede anche che un sacco di gente continua ad entrare e uscire, senza tanti controlli. E fuori c'è uno con un carretto che vende i gelati.
"Guardate. Proviamo ad andare fuori a prendere il gelato; se quelli ci fermano noi siamo lì per il gelato, se non ci fermano è fatta..."
Tra tutti gli altri che si sono aggiunti a noi fin dal trasferimento in traghetto, nessuno è disposto a scappare con noi. Rimanere sul treno sembra loro il male minore, la soluzione più sicura.
"Fin adesso ce l'abbiamo fatta, se ci prendono ci ammazzano".
Noi tre siamo invece d'accordo di tentare la fuga, ma decidiamo che la prova del gelato la fa prima uno da solo. Muovendoci in tre daremmo troppo nell'occhio. Parte Piero.
"Se non mi fermano, venite fuori anche voi".
"D'accordo, stai attento!"
Saltiamo giù dal carro, mentre Piero si avvia verso la porta, col sacchetto degli indumenti. I due militi che dovrebbero sorvegliarci non fanno una piega. Alla porta ci sono altri fascisti e anche dei tedeschi, ma nessuno lo ferma. Piero esce a prendere un gelato, è lì fuori con un gelato in mano. Per il momento il piano sta funzionando. Romolo e io lo raggiungiamo; prendiamo anche noi un gelato. Non crediamo ai nostri occhi. I fascisti e i tedeschi che sono a pochi metri da noi, probabilmente ci scambiamo per dei volontari che si stanno rinfrescando in attesa della partenza del treno. I gelati stanno finendo. Bisogna muoversi.
"Cosa aspettiamo ?"
"Andiamo"
Fonti bibliografiche

Galli P., 1997, Da una parte sola. Autobiografia di un metalmeccanico, Manifestolibri, Roma.