top of page

Home > Vite resistenti > Luisa Denti Sacerdoti - schedaLuisa Denti Sacerdoti - approfondimento

Luisa Denti Sacerdoti

Nata a Lecco il 31 gennaio 1929. Fece la staffetta curando i collegamenti fra Lecco e le formazioni partigiane della Valtellina.

Non era facile dire no al fascismo

Mio papà era un perseguitato politico, aveva partecipato all'occupazione delle fabbriche nel '21, non aveva mai voluto iscriversi al fascio per cui la famiglia "pagava" le conseguenze di tutte queste sue scelte. Se penso alla vita che ha fatto mia madre...lui andava a lavorare in un posto e, quando gli chiedevano di iscriversi, diceva di no e lo mandavano via. Ha fatto mille lavori, si era persino preso un pezzo di terra da coltivare in proprio per poi vendere frutta e verdura. In casa arrivavano sempre ispezioni e quando arrivava qualcuno in alta Italia, grandi capi, gerarchi, veniva arrestato, anche quando venne a Milano il figlio del re d'Italia con Maria José - si erano appena sposati - mio padre venne rinchiuso in carcere per tre giorni. Quando Hitler venne in Italia mio padre era a casa ammalato per cui, non potendolo portar via, venivano a controllarlo due volte al giorno. Entravano in camera da letto e vedevano in bella mostra un piccolo quadretto con l'effige di Matteotti e sotto la scritta: "Uccidete me, ma non uccidete le mie idee". E sopra il letto un grande manifesto, incorniciato come fosse un quadro, fatto fare dai socialisti, credo nel '22, che raffigurava un Cristo biondo, i capelli lunghi, una gran tunica rossa e il mantello blu, e sotto c'era scritto: "La natura ha stabilito la comunanza dei beni, l'usurpazione ha prodotto la proprietà privata". E loro leggevano tutto e facevano di quelle facce... Un altro particolare che ricordo è legato alla consegna del rame e dell'oro per la Patria. Mia madre proveniva da una famiglia molto cattolica e le sue sorelle la rimbrottavano perchè lei, per seguire mio padre, non aveva dato la fede: "Ma non ti vergogni? Almeno levatela. L'hanno data tutti". E così un giorno lei se l'è levata. Quando la sera mio padre se n'è accorto le ha fatto una scena tale che se l'è dovuta rimettere: "O te la rimetti o me ne vado! Io non gliela voglio dare e nessuno mi può obbligare a dare una cosa che non voglio dare. Io non voglio contribuire a questo regime". E' questo l'ambiente in cui sono cresciuta, i miei primi ricordi. Erano atteggiamenti che avevano conseguenze. Ma devo dire che, forse, la maggioranza della gente non era d'accordo con il regime, ma si adeguava. Non erano intimamente d'accordo ma neanche in disaccordo: si adeguavano e la vita era più comoda. Le opposizioni in genere sono una minoranza...
 
Ma percepivate una qualche solidarietà magari tacita, non manifesta, non detta da parte della gente?
No, la gente non sapeva niente di queste cose...però adesso che ci penso c'è stata una manifestazione... Mio padre è morto nel novembre del '43 e hanno fatto un funerale civile, il primo a Lecco, e a quel funerale c'erano almento mille persone! Col ragionamento di poi mi viene da dire che tutti sapevano chi fosse mio padre. Lui era stato anche consigliere comunale negli anni Venti e mai ha nascosto di essere antifascista. Questa grande partecipazione me la ricordo come un fatto positivo,una manifestazione aperta di solidarietà. Anche perchè bisognava stare attenti, si rischiava di essere arrestati anche per delle stupidaggini, bastava che uno dicesse una frase... Io nel '44 avevo scritto ad un amico che era militare una lettera in cui accennavo al fatto che la vita era proprio difficile. Mi hanno chiamata in Questura per farmi chiarire che cosa intendevo con quella frase...Bastava proprio un niente per finire dentro.

Nel '44 mi sono avvicinata al PCI clandestino

Dunque, è stato suo padre il tramite per cui si è trovata coinvolta?
Mio padre era legato a questo gruppo di antifascisti, e avevo solo quindici anni e mezzo nel giugno del '44, quando ho finito le tre medie, avevo fatto le industriali, e loro mi hanno chiesto di lavorare per il Pci. Facevo in pratica la segretaria del gruppo di Lecco. Mi avevano dato una macchina da scrivere e ho cominciato battendo tutte le direttive, le varie disposizioni. Poi, una volta alla settimana, andavo a Como - dove c'era la federazione provinciale da cui noi di Lecco dipendevamo - a prendere tutto il materiale di propaganda, i volantini, qualche volta anche delle armi. Non era un viaggio facile: la ferrovia tra Lecco e Como era interrotta, quindi dovevo prendere il tram, ma per prendere il tram dovevo avere un permesso speciale della Questura. Tutte le settimane dovevo inventare una scusa. Il permesso valeva solo un'andata e un ritorno, inventare scuse una volta alla settimana era un po' troppo, cosicchè appena è venuta la stagione buona sono andata in bicicletta, una bicicletta che mi era stata data da un compagno perchè io non l'avevo.
 
La roba la nascondeva in borsa?
In un pacco o in una borsa. Mi avevano consigliato di salire sul tram, metterla su una reticella e andare dall'altra parte perchè c'erano sempre delle ispezioni - soprattutto per controllare il mercato nero. Solo che io avevo paura che qualcuno me la rubasse e nella maggioranza dei casi me la tenevo stretta. Poi a settembre mi hanno chiesto di sostituire delle staffette che venivano da Milano e che erano state arrestate.

Fare la staffetta

Una volta alla settimana avrei dovuto fare i collegamenti tra Lecco e le formazioni partigiane che stavano in Valtellina e Valsassina, ma soprattutto in Valtellina. Accettai. Prendevo il treno e qui incontravo le staffette della 52° Brigata Garibaldi, che stava al di là del lago. Loro salivano a Dervio e sul treno nelle gallerie - perchè il treno per via dell'oscuramento non era illuminato - ci scambiavamo le corrispondenze. Portavo soldi, carte annonarie, disposizioni. Allora si dipendeva dal Comitato di Milano. C'era una direzione a Lecco, due compagni - un uomo e una donna - che facevano da base fra Milano e Lecco, e da Lecco partiva quello che io trasportavo. Si mettevano le rivoltelle intorno al busto, mentre i documenti lungo le braccia oppure in borse a doppio fondo. Andavo anche a Talamona dove c'era una famiglia di contadini da cui arrivavano soprattutto quelli della 55° Brigata Rosselli. Ci si incontrava da questi contadini, che avevano il loro cascinale in una posizione un po' isolata: io consegnavo la mia roba e loro me ne davano altra, spesso erano lettere di partigiani che bisognava, poi imbucare, mandare alle famiglie. Altre volte il collegamento era fra Lecco e Milano Greco, soprattutto quello per il Pci. Andavo da una famiglia di operai che lavoravano alla Pirelli e anche lì c'era uno scambio di corrispondenza, direttive, talvolta anche vestiti, equipaggiamenti per le formazioni partigiane.

Miseria.

E la vita a Lecco com'era?
Molto misera. La maggioranza della gente cercava di sopravvivere alla guerra. Si viveva con tutte le restrizioni che c'erano, mancava tutto, soprattutto a chi non aveva soldi. Mi ricordo che mia madre mi aveva chiesto di andare ad aiutare una signora sfollata di Milano, che abitava sopra di noi ed era anziana. Io andavo e questa, che aveva i soldi, le possibilità, mi mandava a prendere il pane bianco. Io non lo toccavo e lei non me ne ha mai offerto...e si che noi avevamo il pane contato! Mi ricordo le liti per avere un pochino di latte in più rispetto alle dosi stabilite. Il sale non c'era del tutto e perciò gli gnocchi venivano fatti col Liebeg: erano una cosa schifosa! Per la gente in generale era un sopravvivere alla giornata. E c'era comunque malcontento. Gli scioperi del '43 ne furono una prova. Mia mamma me ne aveva parlato. Era uno sciopero bianco, non lavoravano ma stavano in fabbrica vicino alle macchine.
 
Sua mamma lavorava in fabbrica?
Sì, in una fabbrica che faceva tra l'altro funi per la Marina. Un lavoro che in genere facevano gli uomini, ma gli uomini allora erano in guerra.
 
Gli uomini in guerra, le donne in fabbrica. Era molto alta la percentuale di donne che lavoravano nelle fabbriche?
Sì molto. Ma non solo nelle fabbriche. Anche, per esempio sui tram. Non c'erano i tranvieri, erano le donne che guidavano i tram. Le donne, durante la guerra, hanno cominciatoa lavorare, anche se a Lecco hanno sempre lavorato, forse più che in altri posti. Era un ambiente operaio. Con la guerra l'occupazione femminile aumentò di molto: tanti lavori che facevano gli uomini erano stati affidati alle donne. Mia madre faceva un lavoro pesante. La sua fabbrica, una fabbrica metalmeccanica, faceva le funi per le navi e i cavi di ferro. C'erano macchine che prima trafilavano il ferro e loro, dopo, dovevano controllare le macchine che avvolgevano questi cavi di ferro. Venivano fuori come delle corde che servivano per le navi da guerra...perchè si lavorava tutti per la guerra. Ma le donne hanno fatto tanto lavoro anche in casa con la minuteria metallica. Il lavoro a domicilio era esteso perchè c'erano delle donne che non potevano andare in fabbrica a lavorare perchè avevano figli da accudire. Quando mio padre si ammalò, nel '41, mia madre cominciò a fare questi lavori.

Fonti bibliografiche
donne.jpg

Ardenti E., La Resistenza rimossa. Storie di donne lombarde, Editore Mimosa, Milano (2004)

bottom of page